Benvenuti in "La memoria è un bene rinnovabile", questo sito rappresenta il prodotto del lavoro svolto da alcune associazioni di Cernusco sul Naviglio sul tema della conservazione e trasmissione della memoria storica legata all’immenso patrimonio che la Resistenza ci ha lasciato.
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4 March 2024

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Cernuschesi partigiani della montagna
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La lunga scia di sangue

4. La reazione nazifascista


I sempre più frequenti sabotaggi e attentati a militi, nonché l’ingente numero di renitenti alla leva e di disertori(che alimentava le fila dei partigiani) intensificarono la reazione nazifascista. La violenza si scatenò non solo su reali o presunti partigiani, ma anche su singoli e comunità che in qualche modo li aiutavano, o proteggevano renitenti, disertori e soldati alleati fuggiti dai campi di prigionia. Anche in Martesana si fecero così sempre più frequenti i rastrellamenti, particolarmente intensi e dai tragici esiti nei paesi in cui, attraverso una capillare rete di delatori, si avevano avute informazioni sulla presenza di gruppi partigiani e di armi. Ai rastrellamenti si affiancarono poi le rappresaglie per vendicare militi uccisi o feriti, e attacchi a presìdi.
Oltre alle forze fasciste e tedesche erano dislocate in Martesana, e precisamente a Melzo, reparti della temibile “Legione Autonoma Ettore Muti”. Essa era stata costituita a Milano nel marzo del 1944 dall’ex squadrista Franco Colombo, e divenne tristemente nota per la barbarie (torture, fucilazioni sommarie, rappresaglie) esercitata nell’attività di repressione antifascista.
La “Muti”, oltre alla sede del Comando, a Milano in via Rovello, disponeva di sei caserme. Tre erano all’interno del perimetro del capoluogo; le altre erano la “De Angeli”, a Villasanta di Monza, la “Bigatti”, a Cornaredo, e la “Mascheroni”, a Melzo. Alla “Mascheroni” avevano sede due compagnie: la “Giuseppe Ruggeri”, che era impiegata in zona, e la “Giuseppe Lucchesi”, impiegata in luoghi vari.

 

I rastrellamenti e i primi caduti

Il 30 maggio 1944 ad Agrate Brianza avveniva un rastrellamento a opera della “Muti” di Milano: il ventisettenne agratese Mario Perego, che non si era presentato al richiamo delle armi, veniva colpito a morte mentre tentava la fuga sulla strada che porta a Caponago.
Il 16 giugno, alle ore 5, Carugate veniva corcondata da truppe italo-tedesche le quali ordinavano la consegna immediata di tutte le armi che si trovavano entro la località; l’adunata di tutti gli uomini aventi obblighi militari; la consegna di tutti gli apparecchi radioriceventi e trasmittenti; l’adunata di tutta la popolazione del luogo sul piazzale della chiesa. Questa era l’accusa rivolta alla popolazione: «Nel paese si ascoltava Radio Londra e avvenivano manifestazioni antitedesche attraverso scritte sui muri ed affissioni di manifesti». Per fortuna non furono trovate armi. Comunque ben 96 giovani con obbligo militare furono arrestati e portati a Monza, da dove vennero trasferiti dapprima in una caserma alla Bicocca e di seguito a Verona, città dalla quale vennero deportati in Germania. Per loro fortuna ritornarono tutti al paese dopo circa quattordici mesi di prigionia. Così ricordava quei tragici eventi il parroco di Carugate, Monsignor Giuseppe Mariani: «La nostra celebrazione vuole ricordare anche il sacrificio e le lacrime e le infinite sofferenze sopportate dalla nostra popolazione di Carugate per causa di quel feroce rastrellamento del 16 giugno 1944 che strappò alle famiglie 96 giovani, colpevoli di non essersi piegati alla coscrizione nazifascista».
Il 13 agosto Luigi Brambilla di Gorgonzola veniva trucidato sulla soglia di casa da due militi della GNR. Brambilla stava organizzando i primi nuclei partigiani della brigata Garibaldi di Gorgonzola. Alle ore 22,30 circa di quel 13 agosto, mentre stava rincasando, due repubblichini gli chiesero i documenti. Essendone sprovvisto e avendo tentato la fuga venne colpito a morte.
A fine agosto l’organizzazione delle formazioni garibaldine subì un duro colpo con l’incendio, da parte della GNR, del cascinotto di Antonio Perego, base dei sappisti di Trezzo d’Adda. Seguirono alcuni arresti e il saccheggio della casa del commissario politico della 103a brigata Alfredo Cortiana, con minacce al padre e l’arresto del fratello. I membri più attivi del distaccamento trezzese venivano inviati in montagna, in Val Taleggio, per qualche settimana. Gli stessi dirigenti dovettero abbandonare la zona (Eugenio Mascetti venne trasferito nella Bassa Brianza).
Il 7 settembre, a Inzago, veniva fucilato il prof. Quintino Di Vona, che era lì sfollato in seguito ai massicci bombardamenti su Milano.

 
A sinistra, Quintino Di Vona con la moglie Lina Caprio in una foto del 1925
A destra, Quintino Di Vona


Di Vona era nato il 30 novembre 1894 a Buccino (in provincia di Salerno), politicamente era di estrazione socialista, insegnante di Lettere dapprima al liceo Carducci e poi in una scuola media di Milano, promotore del CLN della scuola. Così una fonte scritta ci fa rivivere il suo arresto e la sua fucilazione: «Alle 6,30 del mattino (...) bloccati gli accessi stradali e le porte dello stabile in cui abitava il Di Vona con la famiglia, militi della SS tedesca e della “Muti” procedevano brutalmente all’arresto del nostro compagno che, tradotto a Monza su una macchina, veniva dopo poco riportato a Inzago e qui trattenuto prigioniero nella sede del fascio, senza consentirgli di prendere cibo fino all’ora dell’esecuzione, affidata a giovinetti tra i quindici e i sedici anni, che hanno accompagnato la scarica coi loro sghignazzi e i loro canti oltraggiosi. Il cadavere è rimasto esposto sulla pubblica piazza fino a sera. L’arresto è avvenuto per denunzia di spie già identificate e sotto l’accusa di appartenere al partito comunista; la fucilazione come rappresaglia per il ferimento di un fascista e di un soldato tedesco nel paese di Inzago».
L’11 novembre nel corso di un rastrellamento alla cascina Modesta di Brugherio, venivano arrestati i partigiani dell’11a brigata Matteotti Ester Ticozzi e Dino Pace.
Lo stesso giorno, alla trattoria del “Valentino”, nei pressi della stazione tranviaria di Vimercate, le formazioni garibaldine della Martesana subivano un nuovo duro colpo con l’arresto, da parte della GNR, dei comandanti di zona Eliseo Galliani e Guido Venegoni (uno dei quattro fratelli Venegoni, di Legnano). Tradotti dapprima a Vimercate e poi a Monza, Venegoni veniva riconosciuto, mentre Galliani se la cavava miracolosamente. Guido Venegoni riuscì poi a liberarsi, diventando comandante della 181a brigata Garibaldi.

Rastrellamenti, deportazioni, rappresaglie, per quanto colpissero duramente la popolazione e in particolare gli antifascisti non riuscirono però a spegnere del tutto lo spirito combattivo dei resistenti. Scrive lo storico Luigi Borgomaneri, riferendosi alla nostra zona: «Con una zona che pullulava di SS e fascisti, con la mancanza di quadri, le continue sostituzioni e avvicendamenti di comandi di brigata e con un Comando di zona sfasciato per la seconda volta in quattro mesi, desta meraviglia che l’attività non si sia ridotto a zero».

 

5. Riprende la lotta partigiana e inizia
una lunga scia di sangue


Dopo un periodo di relativa calma, la guerriglia in Martesana riprendeva con il secondo attacco, purtroppo funesto per i partigiani, al campo d’aviazione di Arcore. L’attacco venne compiuto la sera del 29 dicembre 1944 e vi parteciparono, suddivisi in due squadre, garibaldini di Vimercate e Rossino, assieme a giovani dell’oratorio e del Fronte della Gioventù. Mentre la seconda squadra, più numerosa, attendeva ai bordi del campo d’aviazione il segnale di entrata in azione, la prima squadra procedeva al disarmo della ronda e all’assedio della palazzina del Comando. Tutto stava procedendo secondo i piani, quando le grida di un’ultima sentinella allertarono gli avieri presenti nella palazzina. Vennero così meno l’effetto sorpresa ed ebbe ragione la forza numerica dei repubblichini. Nello scontro a fuoco veniva colpito a morte il comandante partigiano Iginio Rota, mentre la seconda squadra partigiana non poté fare altro che ripiegare. Le informazioni fornite da due spie portarono presto all’individuazione dei responsabili dell’attacco. Nella notte del primo gennaio la polizia fascista arrestava Pierino Colombo, Renato Pellegatta, Aldo Motta, Luigi Ronchi, Emilio Cereda. Seguirono poi gli arresti dei giovanissimi Enrico Assi, Carlo Verderio, Angelo Nava e Felice Carzaniga; della sorella e della fidanzata di Iginio Rota; di Felice Sirtori (della 13a brigata del Popolo) e dei sacerdoti don Enrico Assi e don Attilio Bassi.
Il 29 gennaio 1945 il tribunale fascista di Milano condannava a morte, mediante fucilazione, i partigiani Pierino Colombo, Emilio Cereda, Luigi Ronchi, Aldo Motta, Renato Pellegatta; a morte in contumacia il partigiano Carlo Levati; a trenta anni di carcere (data la loro minore età) i partigiani Enrico Assi, Angelo Nava, Felice Carzaniga, Carlo Verderio. I cinque partigiani vimercatesi vennero fucilati alla schiena, da un plotone di fascisti, alle ore 7,10 di venerdì 2 febbraio, nel campo d’aviazione di Arcore.

Partigiani vimercatesi caduti per mano fascista

 
Emilio Cereda, Iginio Rota, Renato Pellegatta


Luigi Ronchi, Aldo Motta, Pierino Colombo


Carlo Galbussera, Giuseppe Ruggeri


Dopo due mesi dall’attacco al campo d’aviazione di Arcore, il sesto e il settimo distaccamento (Vaprio e Grezzago) della 103abrigata Garibaldi attaccavano, con l’intento di procurarsi armi e munizioni, il Comando tedesco di Caponago. Anche questa volta purtroppo fallì l’effetto sorpresa e l’azione si concluse col magro bottino di tre fucili e tre pistole. L’attacco, riporta una fonte, «viene deciso per la sera del 28 febbraio. Verso le venti, insieme ai partigiani del 7° distaccamento, ci raduniamo in località Cavallasco (...). Sul posto si trovano due automezzi ed il comandante di brigata “Francesco”, con il vice comandante di divisione “Ciro” (...). Accompagnati da un civile entriamo nella villa passando per un cortile posteriore non controllato (...). Mentre ci stiamo avvicinando al centralino telefonico del Comando, da una scala che dal locale porta ai piani superiori scendono improvvisamente due degli ufficiali con un cane pastore. “Actung! Actung!” è il loro grido; il cane viene lanciato contro di noi, gli ufficiali estraggono le loro pistole, ma subito un fuoco infernale si abbatte su di loro e sui militari che accorrono. Sfumato il fattore sorpresa, occorre ora far presto, ogni minuto in più nella villa è pericoloso». Tutti i partigiani, tranne uno ferito a una gamba e prontamente ricoverato in ospedale grazie a un medico compiacente, riuscirono a far ritorno alla base. Anche il rastrellamento operato dai tedeschi il giorno seguente all’attacco non diede per fortuna alcun esito e non comportò rappresaglie nei confronti della popolazione di Caponago.

 

La rappresaglia di Pessano

L’marzo 1945, tre partigiani della 184a brigata Garibaldi Falck di Sesto San Giovanni, passando in bicicletta, avvistavano a Pessano, ai margini dell’abitato, un ufficiale tedesco dell’organizzazione Speer, che si era installata presso le scuole del paese (Prima Todt, poi Speer: organizzazione preposta all’esecuzione dei lavori nelle opere militari e civili del Reich in Germania e nei paesi occupati). I garibaldini si avvicinarono all’ufficiale decisi a disarmarlo, ma lui «intuita la manovra fece atto di voler reagire. Prontamente i garibaldini fecero uso delle armi e lo stendono al suolo».
La notizia si diffuse rapidamente in tutto il paese, terrorizzando la popolazione al pensiero della inevitabile rappresaglia. Il giorno successivo, alle ore 18,10, un camion scortato da soldati tedeschi e repubblichini conduceva al Comando tedesco, presso le scuole elementari, otto ostaggi prelevati dal carcere di Monza

 
Manifesto che annuncia la fucilazione di sette partigiani di Pessano


Alle ore 19 venivano fucilati, sul luogo dove era stato colpito a morte l’ufficiale tedesco: il gappista Alberto Gabellini “Walter”, nato a Cambiago nel 1916; Angelo Barzago, nato a Bussero nel 1925, appartenente alla 201a brigata Giustizia e Libertà; Mario Vago, garibaldino di Busto Arsizio, classe 1923; Romeo Cerizza, garibaldino di Milano, classe 1923; i caratesi, della 119a Garibaldi, Dante Cesana, classe 1919, Angelo Viganò, classe 1919, Claudio Cesana, classe1924.

 

La rappresaglia di Cassano d’Adda

I partigiani della 105a brigata Garibaldi di Cassano d’Adda, Inzago e Gorgonzola avevano deciso di compiere un’azione di recupero armi facendo irruzione al caffè Quadri, in località â€œFornasèn” di Cassano, locale abitualmente frequentato da militari tedeschi. Alle ore 22 della sera del 28 marzo 1945 «arrivano in bicicletta i componenti della brigata del distaccamento di Gorgonzola. Sono capeggiati dal partigiano Luigi Restelli, che, fulmineo, spalanca la porta, seguito da altri quattro. Mentre i primi due controllano i tedeschi, gli altri si impadroniscono delle armi. Di corsa si avviano all’uscita. La missione sembra riuscita. In quel momento si sente uno sparo. Il Restelli cade fulminato sul posto, altri vengono feriti leggermente. Segue una sparatoria confusa; il comandante partigiano interviene e lancia una bomba. Il locale piomba nel buio e nel caos avviene lo sgancio. Entrano in azione allora i compagni di Cassano che aiutano i feriti ad allontanarsi». Oltre a Luigi Restelli veniva colpito a morte un ufficiale tedesco.
Rastrellamenti, arresti compiuti a Cassano e a Gorgonzola, interrogatori non portarono all’individuazione dei responsabili dell’attacco. Così, per rappresaglia, vennero prelevati dal carcere di Monza quattro detenuti. Il 31 marzo, Sabato Santo, alle prime luci dell’alba, venivano fucilati a Cassano d’Adda: Luigi Lodola, di Castelnuovo Bocca d’Adda; Giuseppe Fontana, di San Vito di Gaggiano; Giuseppe Ruggeri (partigiano di Rossino presso Vimercate) e Giovanni Ballarati.
Il plotone d’esecuzione consumò la vendetta anche sul cadavere di Luigi Restelli, pure sottoposto a fucilazione.