Mio padre, Stocchetti Angelo, nasce a Camisano in provincia di Cremona da una famiglia di contadini, il primo di cinque figli. Fin da bambino si vede la sua voglia di imparare a studiare, ma le esigenze economiche della famiglia fanno sì che a 10 anni inizi a lavorare nei campi e nella stalla dopo aver terminato la scuola al mattino. Riesce a frequentare fino alla V elementare. Poi inizia la carriera dura di “Mungitore”, quella che ora svolgono gli indiani nelle stalle del cremonese. Già nella gioventù si manifesta la sua tendenza politica: per non dare noia e per non far avere rappresaglie alla famiglia, la porta avanti clandestinamente, senza mai farsi prendere dalle camice nere.
Il 7 marzo del 1941 viene chiamato alla visita di leva, in quel tempo gli balena l’idea di disertare, ma sempre per rispetto… Il 25 gennaio del 1942, non ancora ventenne, viene chiamato alle armi presso l’VIII fanteria, nella caserma di via Vincenzo Monti a Milano. L’1 luglio parte per la Russia con il II Reggimento di Marcia 54° battaglione facente parte dell’ARMIR. Partono dopo aver partecipato alla benedizione delle armi in piazza Duomo da parte del Cardinale Schuster, con la famosissima frase pronunciata dall’allora celeberrimo cardinale di Milano: “Cosa volete… c’è la guerra… se sarete fortunati tornerete alle vostre case...”. Il 21 settembre 1942 arriva a destinazione, il 3 novembre 1942 viene trasferito alla divisione Sforzesca, si trova sul fronte russo, medio del Don, per l’operazione 199 del 18 novembre 1942, con abiti estivi e armamenti inadeguati per il fronte di fuoco dei russi, cosicché il 24 dicembre 1942, dopo una furiosa battaglia, la notte di Natale, in mezzo a metri di neve e fuoco, viene fatto prigioniero dai russi.
Non parlava mai di questa tragedia vissuta, l’unica cosa che siamo riusciti a sentire dalle sue labbra è che i soldati morivano in piedi, congelati, e che era una distesa bianca di neve e rossa di sangue. Da qui viene trasferito nel campo di prigionia 105 di Tombon in Siberia, questo per lui paradossalmente è la salvezza. Poi succede un fatto che fa sì che non lavori in questi campi: all’appello dei russi, venne chiesto chi dei prigionieri fosse studente, lui alzò la mano e da lì iniziò la sua prigionia, studiando il russo e imparandolo a scrivere. Un aneddoto voglio raccontare prima di andare avanti con la storia: negli anni ’60 quando l’Italia era ancora divisa in schieramenti politici, a Milano inizia la fiera campionaria, e l’Unione Sovietica era vista come quella che mangiava i bambini, lui faceva da interprete agli amici e alle persone che si affacciavano agli stand con titubanza per aver paura di incontrare l’impero del male. La sua prigionia dura fino al 14 novembre 1945. Da qui ci vogliono 60 giorni di treno per tornare in Italia. Il 14 gennaio 1946 viene ricoverato all’Ospedale militare di Varese per gli accertamenti. Il 20 febbraio 1946 viene messo in licenza di convalescenza di 30 giorni con esiti di “congelamento” al ginocchio destro e ai piedi. Il 22 marzo 1946 entra ancora nell’Ospedale militare di Milano per ulteriori accertamenti, ma visto gli esiti uguali all’Ospedale militare di Varese viene messo in licenza di convalescenza per ulteriori 90 giorni. Il 25 agosto 1946 viene collocato in congedo illimitato. Da quel momento riprende la sua vita “dura” di contadino. Nel 1947 viene proposto per la croce di guerra dopo minuziosi accertamenti; alla fine dell’anno perviene dal comando dell’arma la negazione, per il mancato raggiungimento dei giorni utili sul fronte di guerra: ne ha fatti 92 contro i 120 richiesti… considerati proprio come carne da macello. Spesso diceva: “La croce è meglio che se la sono tenuta… io intanto nel campo di prigionia ho salvato la pelle”. Nel 1948 arriva una bella notizia, gli viene concessa la pensione di guerra; questo momento dura solo fino al 1951, fino a quando arriva un telegramma dal comando generale dell’esercito che comunica la sospensione senza nessun motivo. Quando vi è gente che la guerra l’ha vista da lontano…, questa era l’Italia di allora, come in fondo quella di oggi, e i privilegi beneficiano chi non si schiera mai ed è sempre attendista. Nel 1950 si unisce in matrimonio con mia madre, tre anni dopo nasce mio fratello Gianfranco. Nel 1954 decide di trasferirsi a Gessate per migliorare le sua vita e inizia a lavorare in fabbrica. Diventerà un tecnico specializzato nella saldatura ad ultrasuoni, cambiando completamente vita, da “contadino” sotto la mezzadria ad “operaio specializzato”. Conduce una vita tranquilla di lavoro e famiglia.
I suoi hobby erano: funghi, lumache, rane, tornare sempre al paese nelle sue fontane sorgive a pescare i lucci, ma soprattutto il “Partito Comunista Italiano”, a cui era tesserato fin da giovane. Nel 1958 nasco io.
Mi ha dato l’opportunità di formarmi culturalmente e professionalmente, come del resto fanno tutti i padri. Nel 1979 finisce la sua attività lavorativa, ma non sta mai fermo, in quanto aveva una passione innata per la natura: quando veniva chiamato a mungere le mucche lui correva, aiutarle a partorire lo sapeva fare meglio di un veterinario, e poi la cosa che nessuno sapeva svolgere era tagliare le unghie alle mucche, “il famei… come si dice qui”, oltre ad una passione sfrenata per l’orto. Il 28 aprile 1989, a 66 anni un improvviso malore lo toglie dalla vita terrena. Vorrei ricordarlo come uomo distinto e umoristico, aveva un senso dell’humor incredibile e professionale… queste sono le parole che mi vengono da dentro per ricordarlo. Spero che questo piccolo contributo possa servire a far sì che non si paragoni mai chi ha combattuto per la libertà a chi ha “SBAGLIATO” come dice qualcuno, perché se questo sbaglio si avverava la dittatura era la nostra casa, cosa dovrei dire io che a mio padre la pensione l’hanno tolta senza nessun motivo? Allora è giusto darla a questa gente? Anche mio padre ha dato il suo contributo all’ITALIA come i partigiani, ma con altre sofferenze: sbattuto in una terra dove avrebbe preferito non andarci per quelle circostanze, ma che poi ha sempre amato immensamente. So che può sembrare un’utopia, ma ci spero sempre che i giovani, e i meno giovani, si sveglino dal torpore nel quale i nostri governanti li hanno indottrinati, e sappiano fare tesoro di queste persone portatrici di libertà, giustizia e pace, valori fondanti che hanno permesso che si possa realizzare la nostra carta costituzionale.
Per concludere vorrei ricordare ancora degli aneddoti un po’ umoristici e un po’ che danno l’idea della rabbia che covava dentro dal rientro dalla Russia. Mia nonna, una donna dell’Ottocento, avendo avuto la notizia della scomparsa del figlio da Radio Mosca, che pur di averlo a casa avrebbe fatto di tutto, si reca da una di queste presunte guaritrici e le spiega la situazione chiedendo se “vede” suo figlio, la presunta maga dice che lo “vede” ma che mangiano i bambini a pranzo e a cena. Una volta tornato, mio padre viene a conoscenza da mia nonna di questo fatto, si reca personalmente da quella che aveva il cosiddetto “segno”, lei vedendolo ne rimane entusiasta, parlando del più e del meno ad un certo punto lei gli chiede che cosa mangiavano in Russia, mio padre in risposta: “Mangiavamo un bambino in due”. Tornato dalla Russia sapeva chi erano stati i capi fascisti del suo paese, la rabbia covata per i patimenti subiti per colpa di questa gente era arrivata all’esasperazione. Uno di questi capi era una donna: l’hanno presa, rasati i capelli a zero e pitturato il capo di nero. Dopo hanno preso un cavallo, allora i poveri contadini non avevano il trattore, hanno appeso le redini al collo e l’hanno trascinata per un po’ di tempo, una volta fermato il cavallo hanno scritto sul cartello qui c….o e p….o metà al duce e metà al fascio. Un’altra volta hanno preso i cinque capi fascisti del paese, li hanno portati alla Casa del Popolo e facendoli salire sul tavolo in mezzo alla sala li hanno fatti cantare bandiera rossa.
Erminio Stocchetti
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